sabato 4 aprile 2015

La città del vento

Ogni giorno ci vedevamo in quella panchina improvvisata fatta di cemento accanto a un portone per fumare le prime sigarette e raccontare a voce alta tante cose per non cedere al silenzio dei binari affollati dai treni. In cielo c’erano scie permanenti, non capivo, vedevo il cielo tagliarsi a fette, uno spettacolo. Come quando da bambino spingevo forte sotto la pelle sotto l’occhio per sdoppiare le cose e spostare i monti dietro il cielo lungo la noia dell’autostrada. Un giorno decisero di costruire un hotel molto grande proprio oltre il muro della panchina improvvisata. Ero contento di vedere che dove c’era una volta l’infinito finalmente si presentava una realtà prossima e tutta da costruire. Non sapevo cosa andavano costruendo, ero solo contento della novità e poi le gru modificano il cielo e aiutavano a riconoscere i luoghi da lontano. 

Sono trascorsi dieci anni da allora e tiro spesso dardi alcolici alla ricerca della luce adatta del mattino che mi consenta di riversare dosi impegnate di emotività. L’Hotel, il Grand Hotel dovrebbe somigliare a una nave, è molto grande e a un tratto è piegato a quarantacinque gradi. E’ fatto di mattonelle nere e bianche con una striscia rossa orizzontale sulle prime. Ci sono pure gli oblò. Le mattonelle sono consumate da un lato per la salsedine del mare, dall’altra per la pioggia di sabbia dai monti. Da entrambi per lo smog. Una signora dorme tra i grandi pilastri dell’albergo ha costruito una protezione con dei cartoni targati amazon, intorno a sé molte buste a uso valigia che rimandano ai negozi del Corso principale di lì intorno. La saluto con dita commiserevoli insceno un ciao pietoso e che avrei dovuto risparmiare. Mi risponde “sono pirata, sono maga, per la strada son nata”. Proseguo dritto verso il Tabacchi, credo di essere uscito da casa per questo, o come nei migliori film, ho detto questo a chi di certo non se lo merita. 

La città di notte è dignitosa ma le sue crepe fanno risalire la fogna al naso. La pubblicità per acquistare una pubblicità mi dice “tutti gli occhi su di te”, “a me gli occhi. Qui la tua pubblicità”, ”fai volare questo spazio” e intanto volano buste, cartoni, bicchieri di plastica, cicche per aria in piccoli tornadi. La città è pulita ma quando il vento di mare e quello di montagna si incontrano non resta che asserragliarsi dietro i palazzoni del quartiere e rinunciare a comprare le sigarette. 
Tessera non valida per vento. 

Al bar della signora Tina, tigrata coi suoi leggins e il trucco “sabbia di montagna”  c’è il marito taciturno che apre presto, come l’edicola della vecchia che aspetta i titoloni e si dimentica del resto. Mario apre più tardi, anche se il Bar ha il nome della figlia è da un po’ che lo gestisce lui, ormai ci dorme dentro ma nonostante gli acciacchi il suo baffo resiste ancora al vento. L’odore di pane passa in tra i vicoli e mi riporta a casa, Arturo il Bianco lavora già da qualche ora. 
Qui nessuno conosce il nome delle strade se non quella in cui vive. La via del Sé.

Inciampo nel tombino prodotto dall’industria che fa campare un po’ di gente in città. Ci cado dentro, un vortice mi risucchia all’ingresso della fabbrica, sembra chiusa da anni ma il tanfo che emana la rende viva. C’è una madonna ricoperta di polvere nera, protettrice degli operai, anche loro sono ricoperti dalla polvere, come i balconi dei palazzi intorno, come il cielo che non fa più sognare. Dicono che la madonna non la puliscono più da anni perché si sporca sempre. Dicono che il fumo delle ciminiere fa male ma tanto il vento passa e porta via tutto quello che fa male.

Come quello che fa bene.

lunedì 23 marzo 2015

Lettera senza ricevuta di ritorno







Con le scarpe slacciate ed i piedi in fuga
ho rimesso al proprio posto 
i versi mozzafiato e le parole sante 
le culle che avremo e la bettola

Figlia di un tram, gravida e madre 
del vento che ci insegue 
talvolta lo cavalchiamo 
altre scappiamo in direzioni diverse

Io con l’anima insanguinata e la testa spaccata 
tu con il gomito rettangolo e le gambe incrociate 
ai semafori smorti e al campetto di periferia 
accucciati ci sedemmo un giorno sui nostri scudi

Sulle nostre albe illuminate 
con le caviglie massacrate 
nella notte, nella sua energia cosmica 
le mie parole erano fiumi in discesa 
pronte a modificarsi lungo le curve delle tue espressioni

I tuoi tintinnii gironzolavano 
lungo i prati verdi della mia malinconia 
ti ho amata quando ti ho vista tra i piedi di un impiegato delle poste 
e un tossico avvolto in un telo da mare

Con la madre lucida in volto, scavata al petto e lavica al ventre 
ti ho amata prima di disinnescarti 
di manomettere le tue manie 
di far brillare le tue paranoie

Nella dipendenza, nella clausura 
nel monte spaccato, nel mare di oro nero 
tra le balene del lago, tra le belve all’asilo 
ti ho amata in immagini distinte dal reale

In un acquario metropolitano 
tra le barche del sultano con la corda di mio nonno 
ti ho amata ad ogni funerale 
ho lasciato offerte solo per te

Sull’orlo del precipizio, sul ciglio della strada 
sull’ultima goccia dell’amaro in lingua 
tra la trincea delle onde e il mare in fuga 
ti ho amata nella tua immagine e nel tuo volto mai conosciuto.

venerdì 6 marzo 2015

In via dei Savorgnan


   Bere un litro di caffè perché la sbronza non deve arrivare, no. Non adesso, non è il momento, è il tempo della rincorsa alla lucidità dopo l’abile amaro pronto a tirare fuori l’ultimo sprazzo di brio salutare in sala d’attesa dai tempi dell’adolescenza. E’ l’ennesima stanza d’albergo annuale da fuorisede, da sopravvissuto del sussidio e sogni un reddito da sfaticato per dedicarti al raggiungimento dell’alba ogni giorno. Tranne il sabato. Quello è il giorno in cui non si esce la sera e presto si giunge a letto, la domenica mattina è il tempo sprezzante in cui correre lungo le rive del lago della Prenestina, zompettare i cocci di pietra dell’Appia antica, immaginare la lungomare da scorrere traversando le rughe del sonno altrui.

   Bere un litro di vino non ha mai fatto male in via dei Savorgnan, la puoi trovare solo se cerchi un paese certosino nella metropoli. Non esiste civico e non esiste nemmeno il luogo di cui ti scrivo. O meglio esiste il martedì, giovedì, domenica ma solo se qualcuno te ne parla. O te ne scrive. Non andarci è teppismo spicciolo. Andarci è per pochi soci bene informati. Occhio alla telecamera.

   Puoi entrare in un parco di palazzi e bussare a una cantina, lì è ancora abbastanza caldo per sfogliare qualche salume sotto il palato e degustare amatoriale le gocce di rosso versati nei bicchieri della Nutella. Qualcuno sbatterà forte il bicchiere di cognac contro una vite appena appena fuori di un giro dall’avvitamento dei pensieri. E’ un tavolo raffazzonato con legno scippato ai falò. Alla tua destra, tra l’acquario e il pianoforte vedrai una giovane coppia con un bambino allegro fino a tardi seguace di palloncini e aspiratore di aquiloni. Lei avrà una coda bionda patinata di cavallo, vestita come Lara Croft dopo un giro di furti a Porta Portese. Lui avrà una coda nera con le basi laterali rasate e un pizzetto messicano torpignattaro da esibire con un largo sorriso e una tuta. 

Ti diranno ci accompagna Riccardo a casa, lui è radiotaxi, noi sbronzi e stanchi e lui a inseguire tutto ciò che vola e quando cade respinge sempre al cielo qualsiasi cosa cada. 
Faranno cadere i calici e balleranno sopra i vetri brilluccicanti come loro, insieme a Riccardo. Una sera tanto ci vuole e come diceva il mago Trilussa echissene'. Certi che il tipo della cantina dirà fa niente alla prossima.

   Se non si vuole scorrere il lungo acquedotto, abbandonare la cantina e procedere verso via Casilina, prendere il notturno numero diciotto chiamato anche il cielo è sempre più blu, prima ancora imparare gli orari a memoria, e ritrovare a bordo i bangladini che ogni giorno ti vendono il latte, il vino, la birra, il kebab, la pizza, il caffè. Scrutare il loro volto, sentirne gli odori, memorizzare la loro solitudine di gruppo. Al mattino li troverai lì, ovunque sia. La notte sono uniti, al mattino divisi si spargono per Roma e ti aspettano consapevoli della lezione di un vecchio proverbio usato dalle loro parti se non sai sorridere, non aprire bottega.

venerdì 7 novembre 2014

Un indice statistico


Ho fatto un indice statistico delle mie emozioni
ho registrato tutto con una piccola cimice posta
sulla testa e sul cuore.
Ho raccolto le paure, le insofferenze e i disagi
i colpi di frusta, le urla, i pianti e i silenzi.
Ho fatto la conta dei crampi allo stomaco
da quando sono piccolo
quando sentivo il cognome
pronunciato dalla maestra
fino all’esame per farmi dottore.

Non è cambiato nulla, le emozioni
conservano la nostra infanzia,
preservano la nostra vita
la nostra natura.

Ho raccolto e ordinato come un bibliofilo,
ho trovato una luce in fondo al cuore
l’ho racchiusa in una stringa di codice
per trovarla ogni volta che ne
sento il bisogno.

La stringa è il tuo nome,
quando sto male e quando voglio stare bene
lo riscrivo cento volte
fino a quando non compari
e la luce dal fondo dirada le nuvole

e riscalda l’interno della caverna mia.

venerdì 31 ottobre 2014

Boschi di braccia tese




Potevamo rotolare ancora un po’ giù dalla collina, con la fronte scoperta e boschi di pugni chiusi. Ma siamo rimasti lì, con le ruote di carta inumidite d'inchiostro, una pozzanghera di parole senza limiti sotto il cielo avorio che urlava di amarci con più Indie da scoprire e meno uragani da preparare.

Potevamo scalare ancora un po’ fino alla punta della collina, con picchetti zuccherati e scritte sul muro. Ma siamo rimasti lì, incapaci di valicare il muro della malinconia, dei dolori passati senza aspettarci nulla di buono lungo la strada. Avremmo potuto dirci favolosi, giovani, teneri ma, miserevoli siamo invecchiati privi di un pino dove sotterrarci sei piedi sotto.

Raggruppati nella folla composta da noi due, abbiamo scavato nella miseria dei fallimenti dei nostri padri, nei silenzi di madri che meditano il suicidio, e abbiamo fatto casa nella grotta della disperazione. Dopo un po’ avevamo fame, ma non avevamo la forza per cacciare cibo né per uscire e respirare con i nostri vecchi polmoni. Allora, non sapendo cosa fare, mangiai il tuo braccio e tu il mio, dicesti di non mangiare l’altro braccio perché volevi che ti abbracciassi in qualche modo. Allora, preda della nuova religione, il cannibalismo, mangiasti le mie gambe e io le tue. Mi dicesti, non mangiare l’altro braccio ti prego, e allora mangiai il tuo cuore, con gli occhi a fare da contorno. Mangiai tutto di te, anche il braccio esile, tutto tranne il collo, il pezzo per cui decisi di amarti, per il fascino del lungo collo bianco dove le vene erano autostrade da guidare fiduciosi di un approdo, le tue ossa che si apprestavano sotto la pelle erano solide strisce bianche da triturare, erano cani da investire per non morire.

Potevamo rotolare ancora un po’ giù dalla collina, con la mente scoperta e boschi di braccia tese. Ma non avevamo più teschio né braccia e allora decidemmo di morire intrecciando i nostri colli serpenti, strisciando fummo palla di carne per rotolare ancora un po' giù verso l’unico motivo per cui entrambi decidemmo di amare.

mercoledì 17 settembre 2014

Ho comprato una sveglia piccola e quadrata

Ho comprato una sveglia piccola e quadrata per non essere più lunatico, ma scientifico giocoliere e tenero soldato.

Quando la giro da un lato mi dice l’ora che fa per non arrivare mai tardi da te.

Quando la giro da un altro lato parte il cronometro perché mi hai detto di superare i miei limiti.

Quando la giro da un lato mi dice che tempo fa così indosso gli abiti giusti senza provocarti vergogna e non avere né freddo né caldo.

Ho comprato una sveglia piccola e quadrata per non essere più imbranato, minuto dopo minuto seguo il programma e non svolto mai per strada.

Ho comprato una sveglia piccola e quadrata che suona ogni giorno alla stessa ora e mi dice “è tempo di alzarsi dal letto, o niente amore e non si lavora”.

La felicità non ha tempo, va di fretta, presto va inseguita.

Ho comprato una sveglia piccola e quadrata ma da quando le pile sono scariche, abile fermacarte, protegge dal vento i miei scritti nati a tarda ora e spettano alla fine, le pile sono scariche come il mio umore.

Benvenuta, tristezza. La tua ora giunge lenta e dolce che quasi quasi non ti faccio più andare via.

Ho comprato una sveglia piccola e quadrata per non essere più lunatico, ma scientifico giocoliere e tenero soldato. 

sabato 19 luglio 2014

Improvvise città


Dilapidare matrimoni lungo le rive dell’oceano, intrappolare lo spreco delle gocce dal rubinetto pubblico con una guarnizione in gomma. Riempire taccuini nel tentativo di descrivere il vento, i venti, i sospiri e i sussurri. Annotare la lista della spesa per sgomberare il magazzino dei pensieri. Stanchi di perdere ancora la fermata dei missili spaziali. Viaggiare lungo un sorriso di un’ancella, soffiare i suoi capelli come foglie, ondulanti versi colati sulle efelidi estive. Saltellare tra fontane chiare lungo i campi fino a calpestare improvvise città. Nuotatori dilettanti spalmati su quartieri dorsali e miserevoli strade. Rimbambiremo le nuvole figlie dei treni, tra le mani c’è l’intelligenza, maestra artigiana dalla luce fiacca ma prolungata e presuntuosa del dio futuro. Giocolieri annoiati ci rallegreremo sotto le cascate metropolitane dei panni inzuppati del terzo piano sotto cui laveremo i nostri visi, i nostri vestiti, i nostri corpi. E infine torneremo alla panchina, come ogni notte, dove saranno nuovi i sogni di cartoni riscaldati per fare l’amore con le malattie del posto.

mercoledì 11 giugno 2014

Formiche


Formiche, siete ovunque. Siete milioni a edificare le vostre grandi opere nella mia stanza. Se almeno pagasse l’affitto. Sapete, i tempi non sono dei migliori per le tasche dei contribuenti. A proposito ho trovato dei vostri parenti anche lì; dicevano di essere i cugini maggiori, stavano lì, nelle scarpe, anche se non credo abbiano resistito allo smog dei miei piedi.

In ogni istante, siete con me. Mangiamo insieme, o meglio, come un divorzio clandestino, rubate gli alimenti di continuo. Sono cosciente di essere la vostra sopravvivenza. 

Mi seguite fino al bagno e spesso cadete nel lavandino, su questo volevo dirvi che non c’entro niente, anche se vorrei. 

Quando dormo marciate lungo la collina che è la pancia mia, ma forse è pura immaginazione, insomma producete suggestioni; è come se percorresse lunghi cammini ogni notte per fare capolinea nei sogni miei.

Quando c’era lei, però, eravate confuse, altro che una grande squadra operaia, mie piccole guardone certo sembravate cicale mica pezzettini neri dal capo chino. Vi ho visto appostate sugli spalti della libreria. Ho visto anche che provavate goffe a imitarci: la vostra invidia glorifica l’essere umano e il suo sudore.

Ora che lei non c’è, siete di nuovo organizzate a passo militare e con rigore sovietico pronte a rovinare la pace mia, in fondo, avete ragione, è un ambiente più adatto a voi che a me. 

Con lo sguardo ispeziono la stanza

Guarda cosa hai lasciato in giro, sciafarazzo di provincia che non sei altro: cicche sul letto, lenzuola sporche, il cuscino giallo, libri e giornali in terra fra croste di pizza e i cartoni del corriere, lo spazzolino più adatto al water che ai tuoi denti, lo shampoo colato sopra il riso della settimana scorsa.

Mi sento ospite, ma quanto è intorno alla stanza, l’ho costruito io. 

C’è di tutto, ci siete voi e i miei disordini, manca solo lei. L’ho accompagnata lontano e una volta andata via, dopo di che mi sono diretto al supermercato per acquistare l’insetticida. Ho scelto il più costoso, perché letale, ma soprattutto spietato.


Lungo il ritorno, mentre percorrevo la grande collina, ero così piccolo, vestito di nero in conflitto col sole, come voi pensavo di venire schiacciato da un momento all’altro. 

Credetemi, avrei voluto uccidervi, ma poi ho capito che non mi importa. E quindi, care amiche di un’estate, sapete che vi dico? Avete vinto. Bandiera bianca per me. Tenetevi pure la stanza, io non torno più.


mercoledì 4 giugno 2014

Una minaccia meravigliosa


E buonanotte a chi ha sonno dopo aver mangiato dal nonno,
a chi ha ancora fame e chi ha bevuto di traverso.
Buonanotte a chi sorride, a chi perennemente
vortica tra nord e sud e non viaggia in prima classe.

E buonanotte a chi maledice il padre eterno
Mentre gioca alle macchinette con pausa sigaretta.
Buonanotte a chi si buca ancora, fuori moda
mentre lascia la figlia fuori scuola.

E buonanotte a chi comunque cresce e sorride
anche sotto bombardamento.
E buonanotte a chi silente urla senza chiedere voti.
Buonanotte a chi con forza parla di odio di classe come Edoardo.

E buonanotte a chi lavora 68 ore la settimana,
ma quante ore ha una settimana?
E buonanotte a chi è pagato 1,85 euro l’ora
e a chi non va in fabbrica perché ha studiato e ci crede ancora.

E buonanotte a lui che al telefono riceve una proposta:
50 euro al mese per fare la telecronaca di pallavolo.

E buonanotte a chi traina chi non vede
e ogni giorno gli pesta un piede.

E buonanotte a chi dorme
mentre la casa si allaga,
presto i boy scout busseranno al citofono per dirgli:
chiudi il rubinetto, le piante sono piene!

E buonanotte a chi ti rivolge il dito contro per dirti cosa?

Nulla se non una minaccia meravigliosa.

sabato 31 maggio 2014

Le sbarre del lago industriale


     Che poi in uno stanzino non si sta così male. Siamo io e te, chissà quante storie avremo da raccontare. Che poi se chiudi gli occhi puoi andare ovunque, dimenticare le storie che non ti va di raccontare. Che poi se diventiamo scemi non succede niente di male, l’unico problema è che non possiamo fare ironia. Che poi alla musica reagiamo tutti uguale, nessuno è immune, non la puoi ignorare.

     Siamo permeabili alle vibrazioni, come ai piccoli gesti, ai rumori. Senza rumori, dicevi che dicevi sempre al centro occupato una volta, tanti anni fa, dal tuo papà, dicevi che senza rumori la musica non si può fare. Dammi un altro po’ di vino dicevo sempre, poi ti lasciavo il bicchiere e riscuotevi la cauzione alla cassa. Magari ci fosse la cauzione pure qui. E pure una cassa.

Ma torniamo a noi.

     Devi sapere che dietro questo rudere, che una volta era un’industria, c’è il mare. E’ roba artificiale, come quella che ha fregato mio figlio, comunque, dicevo che non è che qualcuno voleva fare il mare profondo, si trattava di un palazzinaro che aveva fame, voleva farci un centro commerciale, prese la ruspa e di suo pugno inizio a scassare tutto, pure le falde acquifere.

     Ora c’è un lago in mezzo a questa metropoli, sento l’odore pure da qua.
Sta roba poi non è che te la racconto perché me la sono inventata, ho una fonte chiara e affidabile, me l’ha detto una mocciosa, mi ha parlato pure dell’assessore e dei ragazzi che si danno da fare, che poi c’è sua madre ma non ti dico niente di lei. 

Che poi tu sei giovane non è che ci credi a quello che dico, ma un giorno capirai.

     
     Ora ti racconto questa storia, e stammi a sentire, tanto stasera piove, senza che cerchi le scie alcoliche di tuo figlio, lui con l’ago non fila nulla, va di scarto; senza che cerchi, dietro queste sbarre per evadere puoi fare due cose: o chiudi gli occhi e inizi a sognare oppure stai zitto, muto e continui ad ascoltare la storia che ti sto per raccontare.